La Libia, come si sa, ha importanti e ragguardevoli risorse petrolifere. Esse vengono apprezzate per la qualità, che consente una raffinazione a costi molto ridotti, nonché per un trasporto che verso l’Italia e l’Europa è per ovvi motivi geografici di gran lunga più semplice rispetto al greggio che arriva da altre parti. Con un Paese in preda al caos, con intere zone in mano a fazioni e gruppi che da anni detengono il reale controllo del territorio, il petrolio fa gola a molte organizzazioni criminali le quali hanno la possibilità di rubarlo e contrabbandarlo in varie parti d’Europa e del mondo. Ed è su questo business che da diversi tempo molti investigatori italiani hanno puntato i riflettori.

L’asse Libia – Malta – Sicilia

Il sentore che qualcosa non stesse andando per il verso giusto negli affari con il petrolio, lo si è intuito soprattutto a partire dal mese di ottobre del 2017. In quei giorni a Catania prendeva piede l’inchiesta “Dirty Oil”, che ha portato all’arresto di alcuni membri di una banda sospettata di far entrare in Italia greggio prodotto dei traffici da contrabbando. Il fatto che ad effettuare quell’indagine sia stata la procura etnea, appare alquanto indicativo perché sta a dimostrare il coinvolgimento di alcuni gruppi siciliani, sospettati di essere molto vicini a cosa nostra. In particolare, tra gli indagati vi era anche un certo Nicola Orazio Romeo, il quale avrebbe operato con il benestare del clan Santapaola – Ercolano, uno dei più potenti della mafia della Sicilia orientale. Il diretto interessato ha sempre smentito rapporti con la criminalità organizzata, al momento le indagini sono in corso ma il suo semplice coinvolgimento è bastato per far piombare lo spettro delle mani della mafia sul contrabbando di petrolio.

Nel corso di quelle indagini, la procura etnea guidata da Carmelo Zuccaro ha snocciolato cifre importanti che ben hanno fatto comprendere l’entità del fenomeno. Soltanto tra il giugno del 2015 e del 2016 infatti, sarebbero arrivati oltre 82 milioni di chili di gasolio libico rubato nel nostro Paese, per un valore d’acquisto pari a circa 27 milioni di Euro. Litri su litri di greggio spacciato, tramite una falsa documentazione, per prodotto arrivato dall’Arabia Saudita. E tutto questo grazie ad una banda che, oltre a Nicola Orazio Romeo, avrebbe avuto anche altri importanti esponenti e non solo in Sicilia. A risaltare, in particolare, è il ruolo dei cugini maltesi Darren e Gordon Debono. Ecco quindi la pista che porta a Malta, dove i due protagonisti sopra citati sarebbero stati in grado di intrecciare rapporti con alcuni gruppi libici e, in particolare, con la milizia Al Nasr. Quest’ultima controlla l’importante territorio di Zawiya, dove ha sede uno dei più importanti stabilimenti petrolchimici della Libia. Ecco quindi che quell’asse Libia – Malta – Sicilia prende sempre più forma.

Le vie del petrolio di contrabbando

L’inchiesta Dirty Oil, che ha visto complessivamente 50 indagati ed il cui processo è ancora in corso, è stata forse quella più clamorosa lungo l’asse del contrabbando di petrolio libico. Ma non l’unica: il 20 gennaio scorso, come sottolineato da Nello Scavo su Avvenire, è stata la volta dell’operazione “Vento di Scirocco” con almeno 23 indagati sempre per un giro di contrabbando sospetto di petrolio dalla Libia. A dicembre invece erano state le procure di Bologna e Roma a mettere sigilli a depositi di carburante e ad arrestare altri personaggi operativi lungo l’asse del contrabbando. E poi ci sono anche le inchieste delle Nazioni Unite a chiarire ulteriormente il quadro. Secondo gli ultimi report dell’Onu, esistono vere e proprie “vie del contrabbando”, assi lungo cui scorrono fiumi di petrolio rubato dagli stabilimenti libici e diretto quindi verso l’Italia e l’Europa.

Si parte, in primo luogo, da Zawiya: qui, come detto in precedenze, hanno sede alcune delle più importanti raffinerie del Paese nordafricano. Il greggio viene rubato, con la complicità delle milizie che controllano il territorio a partire da quella denominata Al Nasr. Quest’ultima è quella alla cui testa vi sono i fratelli Kachlav: a Zawiya nulla si muove senza il loro consenso, nulla esce senza che i vertici di questa milizia non abbiano raggiunto un qualche accordo per un determinato affare. Anche le Petroleum Facility Guard sono composte in gran parte da membri della milizia Al Nasr. E dunque anche coloro che dovrebbero garantire la sicurezza negli impianti petroliferi, in realtà sono impegnati nel furto dell’oro nero. Una volta uscito dalle strutture di Zawiya, il petrolio poi viene spedito a Zuara, altra città della costa occidentale della Tripolitania.

Qui, sempre secondo le Nazioni Unite, insisterebbero diversi impianti dove il greggio rubato viene custodito in attesa di essere imbarcato. Al porto di Zuara ci sarebbe quindi un’intera flotta pronta a trasportare il petrolio verso Malta e quindi poi verso il nostro Paese: “Ci sono circa 70 imbarcazioni, piccole petroliere o pescherecci da traino, dedicate esclusivamente a questa attività”, si legge nei report dell’Onu. Vere e proprie imbarcazioni “fantasma”, che partono alla volta delle acque maltesi ed italiane. Da qui, il petrolio contrabbandato raggiunge poi le destinazioni finali entrando nel mercato europeo. Un business che sottrae miliardi di Dinari ai libici, che alimenta le tasche di almeno una ventina di organizzazioni criminali impegnate nel contrabbando.

I nomi che circolano nelle inchieste

Prima si è fatto riferimento alle persone coinvolte in Italia ed a Malta nelle indagini volte a smascherare il traffico illecito di petrolio. Ma tra le inchieste italiane e quelle delle Nazioni Unite, a risaltare sono soprattutto i personaggi impegnati in Libia. Ad esempio, un nome che circola spesso in queste inchieste è quello di Fahmi Bin Khalifa. Si tratta del numero uno di un’altra milizia che controlla fette di territorio nella parte ovest della Tripolitania e che avrebbe stretti contatti con i Debbono e con i maltesi. Come detto poi, c’è di mezzo la milizia Al Nasr al cui timone si trovano i fratelli Kachlav. Ma non solo: all’interno di questo gruppi vi è un’altra vecchia conoscenza degli investigatori italiani e di quelli delle Nazioni Unite. Si tratta di Abdou Rahman, meglio noto come “Bija“. Quest’ultimo è stato spesso indicato come uno dei più pericolosi trafficanti di esseri umani, ma il suo nome è salito alla ribalta nell’ottobre scorso, quando il giornalista Nello Scavo ha scoperto che Bija è stato presente al Cara di Mineo nel 2017 in qualità di rappresentante della Guardia Costiera libica. Sì perché colui che è accusato di essere un pericoloso trafficante, è stato visto più volte anche con la divisa della locale Guardia Costiera. Nei rapporti Onu, il suo nome figura anche tra le persone impegnate a Zawiya nel contrabbando di petrolio.

Il greggio rubato, termina la sua corsa in Libia a Zuara. Qui il porto è in gran parte in mano ad un altro clan ben conosciuto in Italia, ossia quello degli Al Dabbashi. Si tratta della famiglia che fino al 2017 ha controllato Sabratha, di recente alcuni membri del clan sono stati visti nuovamente in questa cittadina costiera libica dopo la fuga dell’Lna di Haftar. Anche gli Al Dabbashi sarebbero quindi impegnati in questo vorticoso giro di contrabbando.

La connessione tra petrolio e migranti

Gli Al Dabbashi, così come Bija, sono spesso stati associati al business del traffico di esseri umani. Il fatto che i loro nomi circolino spesso anche nelle inchieste sul contrabbando di petrolio, indica una forte interconnessione tra i due business. Il forte sospetto è che sia gli affari sui migranti che quelli sul greggio siano gestiti dagli stessi gruppi. Questo potrebbe aver creato negli anni un cartello molto forte e potente, difficilmente perseguibile in una Libia senza vere e proprie autorità. Non proprio una buona notizia, sia per la stessa Libia che per il nostro Paese.