germania
11 gennaio 2018

La festa tedesca è finita?

Cento giorni per riparare un ascensore, nove anni di ritardo per costruire un aeroporto, dieci anni per finire un teatro. Il corrispondente del Corriere della Sera lascia la sede di Berlino e si chiede: la stabilità tedesca è diventata paralisi? Tre mesi dopo le elezioni non c’è ancora un governo, Angela Merkel e il suo modello di Germania sembrano al tramonto. Li rimpiangeremo?

SPESSO la Germania è in salita. I tre mesi finali della mia corrispondenza da Berlino per il Corriere della Sera li ho passati sulle scale. Quarto piano. Si era rotto un ingranaggio dell’ascensore. Niente di artigianale, è uno Schindler, multinazionale svizzera, quella del “noi spostiamo un miliardo di persone al giorno”: non un’impresa impossibile procurare il pezzo di ricambio. Per cento giorni, però, niente è successo. Caso non raro di disservizio. Un amico banchiere che ha comprato casa nella capitale tedesca aspetta da settimane che gli venga installata la connessione Wi-Fi: trasferirla da Deutsche Telekom, l’azienda dominante del settore, a un altro operatore è un percorso a ostacoli famoso in tutta Berlino.

Non è che la Germania non funzioni e l’efficienza tedesca sia un mito del passato. L’organizzazione rimane buona, il Paese è serio. È che innova poco, spesso sembra fermo a un’idea di economia e di società del secolo scorso. La retorica dei politici, Angela Merkel in testa, sulle necessità di digitalizzare e adeguare al futuro economia e società è continua. La realtà è che da 15 anni i governi non fanno riforme; le posizioni di monopolio sono solidissime; la concorrenza nei servizi è scarsa; interi settori, dalle auto alle banche, vivono sotto l’ombrello protettivo della politica nazionale e locale; le competenze richieste nel futuro digitale si creano con fatica. I servizi ai cittadini (non solo per gli ascensori) sono lenti. E l’ultimo miglio dei cavi di telecomunicazione, controllato dalla Telekom, è in genere in rame. Detto in altri termini, l’economia tedesca è forte, lo sarà anche nel 2018, la disoccupazione è ai minimi storici, le esportazioni tirano come non mai: il Paese, però, fatica a fare i conti con il ventunesimo secolo.

A fine estate, assieme agli altri corrispondenti da Berlino, ho dovuto raccontare una delle campagne elettorali più sonnolente della storia: la cancelliera Merkel l’ha condotta proclamando che i tedeschi non sono mai stati così bene e il primo obiettivo del voto era non cambiare. Il 24 settembre, alle urne, è stata punita: il suo blocco politico cristiano-democratico è risultato ancora il più forte ma ha perso quasi il 10% dei consensi. Per la leader è stato probabilmente l’imbocco del viale del tramonto. Confermato dalla lunga crisi politica che finora non ha prodotto un nuovo governo a Berlino e certificato dai sondaggi: la maggioranza dei tedeschi non vorrebbe più un esecutivo guidato da lei. Alla Germania serve qualcosa di più del solito, diverso dal rassicurante racconto secondo il quale non ci sono problemi e tutto va bene. È il segnale che per Frau Merkel e per il modello tedesco trionfante negli scorsi anni la festa sta finendo. Ho detto addio a Berlino, dopo averci vissuto per sette anni in due riprese, un giorno di dicembre su un volo EasyJet dall’aeroporto di Schönefeld, quello che ai tempi del Muro era lo scalo dell’Est della città. Nessuna capitale dell’Occidente, probabilmente, ha una porta d’uscita e d’ingresso più triste e disagevole: la mia lunga coda al gate per Milano, in un angusto corridoio, si mescolava con quella altrettanto lunga per il gate di Vienna, un caos di lingue e di esasperazioni. È che di recente è fallita Air Berlin e per l’Italia (ma non solo) non si vola più dallo scalo di Tegel, quello occidentale, meno peggio anche se inadeguato per una capitale. Soprattutto, succede che il nuovo aeroporto Willy Brandt in costruzione (si fa per dire) doveva essere inaugurato nel 2011 ma, se tutto andrà bene, sarà aperto nel 2020 a costi di costruzione decuplicati: un fallimento a 360 gradi inspiegabile nel Paese degli ingegneri leggendari.

Ritardi ed esplosione dei costi ci sono alla nuova stazione ferroviaria di Stoccarda e ci sono stati alla Elbphilarmonie di Amburgo, ultimata con sei anni di ritardo: «È in corso una sorta di italianizzazione nelle opere pubbliche tedesche», mi diceva un top manager mentre salutavo lui e mi congedavo da Berlino. Arretratezze e incongruenze indicano che il conservatorismo spesso batte l’innovazione. Le chiese e i sindacati sono alleati nella difesa di una linea rossa, quella della domenica. Nei giorni di festa, i negozi rimangono chiusi, salvo poche eccezioni. Pare che la maggioranza dei tedeschi sia felice del Ruhetag, il giorno del riposo obbligatorio. E sulla stessa lunghezza d’onda sono le grandi catene di distribuzione, convinte (ma le esperienze internazionali dicono il contrario) che l’apertura domenicale non accresca il giro d’affari ma aumenti i costi. Sulle banche locali, numerosissime, i governi dei Länder hanno aperto un ampio ombrello protettivo, così impermeabile da avere favorito avventure da parte dei vertici degli istituti di credito: si sentivano immunizzati contro ogni rischio grazie alla copertura dalla politica locale. Con esiti pessimi durante la crisi finanziaria. Gli aiuti che il governo di Berlino e alcuni Länder danno all’industria principale del Paese, quella dell’auto, sono costanti, vanno dagli incentivi al diesel alla difesa senza quartiere del settore, a Bruxelles, contro le regole europee sulle emissioni dei gas di scarico: Merkel protagonista diretta. Il risultato è un intreccio tra politica e industria dell’auto che genera mostri, come nel caso dello scandalo Dieselgate della Volkswagen, dove la collusione tra proprietà, sindacato e governo della Bassa Sassonia nella gestione del gruppo è stata alla base dell’irresponsabilità e del senso d’impunità del top management. E con l’esito forse ancora più grave della creazione di un clima di autocompiacimento che ha impedito ai grandi gruppi dell’automobile di rendersi conto per tempo della rivoluzione in arrivo nella mobilità.

Protezionismo e sclerosi sono diffusi anche nelle libere professioni e in una serie di servizi. Nei miei anni tedeschi, ho scritto decine di articoli su Merkel, sul suo ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, sulla Bundesbank e un po’ su tutta l’ortodossia economica tedesca che (giustamente) chiedevano riforme strutturali all’Europa, Italia in testa. Ma anche la Germania ha bisogno, da tempo, di riforme: in 12 anni alla guida del governo, però, la cancelliera non ne ha varata alcuna significativa. L’economia ha beneficiato della rivoluzione del mercato del lavoro introdotta dal governo rosso-verde di Gerhard Schröder nel 2002-2003 e dell’integrazione con le economie a basso costo dell’Est europeo. Dopo, però, le politiche a favore dell’innovazione sono rimaste nei discorsi dei convegni.

Merkel ha svolto un ruolo straordinario a livello internazionale, ha tenuto unita l’Europa durante la crisi finanziaria e di fronte all’aggressività di Vladimir Putin in Ucraina, ha aperto (pur senza un piano) ai rifugiati siriani, ha difeso le istituzioni e le politiche liberali di fronte al protezionismo, si è opposta al nazionalismo e all’antisemitismo. Ma in casa – dove risiede la sua legittimità politica – ha pochi risultati da presentare. Gli elettori gliel’hanno detto: nel mondo d’oggi, ai tedeschi non bastano più le sue mani sicure, incrociate a rombo sul davanti, per convincersi di essere all’altezza delle sfide, siano quelle dei migranti, della scuola, dell’economia. La stabilità va bene, la paralisi no. Nelle ultime settimane, i capi delle imprese grandi e piccole hanno iniziato a dirlo a muso duro alla cancelliera e ai partiti.

La stessa crisi politica che attraversano Merkel, la sua Cdu e il partito gemello di Baviera Csu la sta vivendo, in misura più drammatica, la socialdemocrazia. La Spd, oggi guidata da Martin Schulz, è stata al governo con i cristiano-democratici, in posizione minoritaria, per otto dei 12 anni di governo Merkel. Non ha prodotto idee nuove e le proposte che ha avanzato le ha fatte proprie la cancelliera: si è creato una sorta di super-Partito della Nazione tra i due grandi movimenti di massa cristiano-democratico e socialdemocratico, sotto il mantello di Frau Merkel. I tedeschi si sono trovati senza una chiara competizione tra proposte e programmi e si sono dunque rivolti ai Liberali, ai Verdi, alla Linke (Sinistra) e alla nuova Alternative für Deutschland, il partito nazionalista nato quattro anni fa. La Germania è, e resterà un modello di stabilità, di grande cultura, di accoglienza, di apertura, di relazioni sociali poco conflittuali. L’inizio della fine del regno di Frau Merkel è però il segnale che la stagione dell’autocompiacimento, quella in cui si è potuto non cambiare nulla, sta finendo. Il Paese ha grandi energie: nella stessa Berlino, ho avuto modo di conoscere decine di start-up che cercano di imporsi nelle nuove realtà del mondo. Hanno bisogno di essere riconosciute e lasciate libere di crescere: alla forte organizzazione di sempre oggi la Germania deve aggiungere una dose elevata di flessibilità e di velocità. Non sempre, in questo, è un modello. Sceso dall’EasyJet e arrivato a Milano, l’ascensore di casa era fuori uso. Tre piani di scale. Poche ore dopo, ripartiva.

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